Il Quarantotto del sindacato Gianni Giadresco Liberazione 8 agosto 1998 Cinquanta anni fa in Italia si consumava la rottura dell'unità sindacale sancita nel '44 da comunisti, socialisti e cattolici. Una scissione fortemente voluta e ispirata da due forze esterne al sindacato: il Vaticano e gli Stati Uniti. La rottura dell'unità sindacale in Italia, consumata nelle infuocate giornate che seguirono il grande moto popolare di protesta levatosi contro l'attentato alla vita di Togliatti, ebbe due grandi ispiratori e sponsor: il Vaticano e gli Stati Uniti d'America, entrambi determinanti nella politica della Democrazia cristiana. Il primo "teneva in panchina", come sindacato parallelo, le Acli del tempo, in attesa dell'occasione propizia per usarle come cinghia di trasmissione dell'azione scissionistica. I secondi erano passati, da un paio d'anni, dalla coalizione antifascista alla crociata anticomunista, che ebbe una punta di estrema tensione proprio nel giugno 1948, quando la crisi di Berlino fece tremare il mondo. Per la verità, sebbene tra il presidente americano Truman e il pontefice Pio XII vi fosse una totale convergenza sulla visione dei problemi del mondo e sulla necessità di "salvare l'Italia dal pericolo rosso", circa i caratteri che avrebbe dovuto avere il sindacato non vi era identità di vedute. Il Vaticano, sospinto dalla suggestione della fede religiosa, contava di sostituire il sindacato di classe con un "sindacato cristiano", collegato direttamente all'autorità ecclesiastica. Mentre gli Stati Uniti, assai meno sensibili ai problemi della fede, più prosaicamente affidati alla potenza corruttrice del dollaro, puntavano a un sindacato "aconfessionale", capace di attrarre sia cattolici che laici, purché anticomunisti (accomunando ai comunisti anche i socialisti di Nenni, i quali avevano rifiutato la scissione socialdemocratica pochi mesi prima). Tuttavia l'obiettivo principale, ovvero la rottura dell'unità della Cgil, fece sì che Vaticano e Stati Uniti non guardassero tanto per il sottile, una volta che lo sciopero politico, proclamato contro l'attentato del 14 luglio 1948, venne scelto come pretesto per spezzare l'ultimo simulacro di unità tra le sinistre e i cattolici, che ancora resisteva dopo il successo dello scudo crociato alle elezioni politiche del 18 aprile. Né fece la differenza il fatto che quello sciopero politico non aveva alternative; era già iniziato spontaneamente dal basso prima che la Cgil ne assumesse la paternità; e l'iniziativa della Cgil (alla quale non fece opposizione la corrente cattolica) ebbe il merito di evitare che, alla più grave provocazione reazionaria del dopoguerra, si dessero risposte irrazionali di massa. La verità è che l'operazione fu tutta politica; i registi alla Santa Sede e negli Stati Uniti erano all'opera da molti mesi, e la presa di posizione della corrente cattolica contro lo sciopero politico era come il classico incidente di frontiera provocato, a bella posta, da chi vuole scatenare la guerra. Il 22 luglio 1948 - lo stesso giorno in cui il Consiglio nazionale delle Acli dichiarava definitivamente infranta l'unità sindacale e decideva di dare vita a una nuova organizzazione contrapposta alla Cgil, l'Avanti! scriverà che «alcuni specialisti internazionali in scissioni» erano all'opera da alcuni mesi per distruggere l'unità della Cgil, la quale unità, prima delle elezioni del 18 aprile rappresentava una copertura per la Dc presso i lavoratori cattolici, mentre, dopo il successo elettorale dello scudo crociato, era diventata un intollerabile intralcio alla restaurazione capitalistica avviata dal governo Dc. Tra i citati "specialisti internazionali", manovratori con pochi scrupoli e con molti dollari, che già avevano avuto un ruolo determinante nella scissione socialista e nella campagna elettorale della Dc, eccellevano nomi noti di italoamericani, come i sindacalisti Luigi Antonini e Vanni Montana, dirigenti dell'Italian-American Labor Council, tra i cui aderenti figuravano personaggi come il tristemente noto colonnello Charles Poletti, già commissario dell'amministrazione militare alleata in Italia, e Amedeo Giannini, fondatore a San Francisco di quella che sarà considerata la banca più grande nel mondo, e che in tale veste era venuto in Italia a negoziare prestiti americani con il governo di Roma. È ben noto che, al di là del Tevere come oltreoceano, si coltivava l'illusione di condizionare le scelte dei lavoratori italiani. Per cui si immaginava una Cgil in cui la parte comunista avesse un ruolo marginale. Ma quando si tenne il Congresso nazionale, nel giugno 1947 a Firenze, l'esito fu ben diverso e opposto: la corrente comunista, guidata dal prestigioso Giuseppe Di Vittorio, ottenne la maggioranza assoluta, col 56% dei voti congressuali; la corrente cattolica era al terzo posto (13%) dopo i socialisti (23%); infine i laici minori, repubblicani e socialdemocratici rappresentavano appena il 2%. Il fatto che questi risultati si verificassero dopo che si era consumata la scissione socialista e che, da qualche settimana, i socialcomunisti erano stati estromessi dal governo, rendeva il quadro politico-sindacale ancora più sconcertante. Anche se la modestia del risultato congressuale ottenuto dalla minoranza cattolica suggeriva di mettere il freno ai progetti di rottura. Ad ogni modo le reazioni furono pesanti, se si considera che si ebbe l'aut-aut dalla cattedra più solenne. Il pontefice, Pio XII in persona, volle fare conoscere la propria delusione: non essendosi verificata "la confortevole previsione" [...] «dell'influsso che il soffio di spiritualità evangelica avrebbe esercitato nell'opera della Confederazione». Dal canto suo De Gasperi, parlando il 1° maggio, attaccò la Cgil, della quale contestava la pretesa mancanza di democrazia e «l'insufficiente garanzia di libertà e segretezza del voto». Poi, il successivo 16 luglio, rispondendo alla Camera alle interrogazioni sull'attentato a Togliatti, mentre il ministro degli interni Scelba fantasticava di "Piani K" insurrezionali dei comunisti, De Gasperi non esitò a dichiarare che l'unità sindacale era ormai alla porta del cimitero. Si voleva evidentemente forzare la mano alla corrente cattolica della Cgil, nella quale vi erano ancora titubanze di fronte al grande passo della scissione, dimostrando che la rottura era inarrestabile. L'ultimo colpo di piccone l'aveva dato il Consiglio nazionale delle Acli, nel maggio precedente, alla presenza di Fanfani e Segni (entrambi ministri in carica) e di alcuni esponenti del potente sindacato americano "Cio". Le conclusioni cui giunse il Consiglio delle Acli furono esplicite: vi era «la necessità in Italia di un sindacato libero e democratico»; occorreva l'impegno per la sua realizzazione. Fu quello il vero certificato di morte del famoso "Patto di Roma" dal quale, l'8 giugno 1944, all'indomani della liberazione della capitale, era nata la Cgil, con l'impegno unitario dei comunisti, dei socialisti e dei cattolici. Il 26 luglio, l'esecutivo della Cgil denuncia «la scissione da lungo tempo premeditata dalla corrente democristiana e dichiara decaduti da ogni carica e funzione sindacale i rappresentanti di detta corrente». L'indomani, il Corriere della Sera darà una versione dei fatti a dir poco curiosa («Una risoluzione Di Vittorio esclude la corrente democristiana dalla Cgil»). Come se fosse stata la maggioranza a cacciare la minoranza, non quest'ultima a dare vita a un sindacato concorrente. Il 15 settembre, dal congresso straordinario delle Acli nasce il nuovo sindacato e si ripropone il dilemma di origine: disegno americano o disegno Vaticano? Giuseppe Rapelli, esponente dell'ala più religiosa del sindacato, dice con molta brutalità, e con non poco realismo, che si tratta di scegliere tra «fede cristiana e dollari». Ma anche la denuncia della natura politica e antisindacale della scissione non basta. L'esito del congresso dimostra che, tra la spinta della fede e l'attrazione dei dollari, non fu la fede religiosa a trionfare: 580mila voti andarono al sindacato aconfessionale, sostenuto da Giulio Pastore; contro 50mila voti a favore del sindacato "cristiano" secondo la tradizione bianca, sostenuto da Rapelli. Il nuovo sindacato - cui non aderiranno i laici, orientati a dare vita più tardi a una loro organizzazione autonoma (la Uil) - assumerà la denominazione di "Libera Cgil". Solamente in seguito verrà battezzata "Cisl ". La risposta di Di Vittorio Qui di seguito un esplicativo estratto dall'intervento di Giuseppe Di Vittorio su "L'Unità" del 28 luglio 1948. «...Alcuni giornali hanno parlato di "espulsione" della corrente democristiana dalla Cgil. Non vi è nulla di più inesatto: il comitato esecutivo della Cgil non ha espulso nessuno. Esso si è limitato a constatare che gli esponenti democristiani, dichiarando rotta irrimediabilmente l'unità ed iniziando un'opera diretta a creare una nuova organizzazione contro la Cgil, si sono posti naturalmente fuori della Confederazione unitaria [...]. La pretesa di codesti esponenti democristiani di rimanere ai loro posti nella Cgil fin quando abbiano pronta la loro nuova organizzazione non è obiettivamente accettabile [...]. È come se un marito, dopo aver chiesto pubblicamente il divorzio e annunciato il prossimo matrimonio con un'altra donna, pretendesse di avere a propria disposizione la moglie vecchia fino ad momento che non avesse pronta la nuova...». |
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