I consigli degli americani: "Moro non doveva parlare"
di Gianni Giadresco (Rinascita)

Se Moro fosse stato liberato, cosa sarebbe accaduto? Lo domando a Sergio Flamigni, ex parlamentare comunista, che ha in mano la prima copia del libro "i fantasmi del passato" che sta per andare nelle librerie (Kaos edizioni, pagg. 373, L.35.000). Già membro delle Commissioni d'inchiesta sul caso Moro, sulla Loggia P2 e Antimafia, Flamigni è stato, nell'ultimo decennio, un punto di riferimento e una fonte essenziale quanto inesauribile per chiunque abbia tentato di districarsi tra i misteri della strategia della tensione. Ha scritto questo libro, il settimo della serie terrorismo, servizi deviati, delitto Moro, - dedicato significativamente "a tutte le vittime della strategia della tensione e delle trame terroristiche" - per mettere a fuoco una figura come quella dell'ex Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, considerato personaggio chiave nelle vicende che, dalla strage di via Fani si susseguono via via, fino alla strage di Ustica, le rivelazioni sull'organizzazione clandestina anticomunista denominata "Gladio", e le manovre in atto, negli ultimi anni, per "mettere una pietra sul passato", evitando così di raggiungere la verità e fare giustizia.

Flamigni risponde alla domanda sulla sorte di Moro, aprendo il suo libro alle pagine 342/43. Due pagine esplosive. Prima cosa, sarebbe scattato il "Piano Victor". Cioè Moro sarebbe stato internato in una clinica, seguendo il consiglio dato da un esperto del dipartimento di Stato americano(politologo-psichiatra) che aveva già trattato 66 casi di sequestri di persona e che era stato "prestato" dagli americani al governo di Roma nei terribili 55 giorni della prigionia dello statista democristiano. Alla sostanza, secondo "Victor" Moro, una volta liberato, avrebbe detto delle cose che era meglio non lasciargli dire. Per quanto aberrante possa apparire, la rivelazione è stata fatta da Francesco Cossiga in una intervista rilasciata alla TV tedesca, sul finire del novembre 1993, una ventina d'anni, o quasi, dopo il rapimento e l'assassinio di Moro ad opera delle brigate rosse, mentre scoppiava lo scandalo dei "fondi neri" del Sisde. L'esperto americano - affermava Cossiga - "ci disse che era molto pericoloso per l'equilibrio del sequestrato che lo si lasciasse parlare liberamente" in quanto probabilmente avrebbe detto "delle cose verissime, ma una volta apprese sarebbe stato pentito e questo sarebbe stato di grave nocumento per lui". Secondo quello che scrive Flamigni, i dirigenti democristiani del tempo dichiararono di essere stati tenuti all'oscuro della faccenda. E la famiglia dello statista scomparso dirà che si trattava di un "disegno ripugnante".

Nella stessa intervista alla TV tedesca, della quale l'Ambasciata d'italia a Bonn fornirà solamente una estrema sintesi, l'ex Presidente della Repubblica farà una seconda importante ammissione, dichiarando che, quando egli era alla guida del Ministero degli Interni, era riuscito ad infiltrare nei gruppi estremistici dell'Autonomia di Bologna alcuni giovani funzionari di polizia che avevano fatto gli studi universitari e, perciò, non destavano sospetti. La rivelazione è da collegare con la vicenda fantasiosa sorta intorno al nome di "Gradoli" (la base delle Brigate rosse a Roma, che era stranamente contigua ai nostri Servizi segreti). Si disse che quel nome, fosse evocato durante una seduta spiritica svoltasi a Bologna. Ma nel suo libro Flamigni dirada il mistero e le nebbie delle bugie, ricordando una piccola frase, detta in proposito da Andreotti alla Commissione stragi: "non ho mai creduto allo spiritismo. Per me a dare quella notizia e' stato qualcuno dell' Autonomia operaia bolognese". Aggiungendo: "chiedetelo a Cossiga".

Dopo avere letto le pagine de "I fantasmi del passato", aumentano le domande e gli interrogativi cui Cossiga - e non solamente lui - dovrebbe rispondere. Ad esempio le vicende che portarono all'uccisione di Giorgiana Masi, allo scandalo Donat Cattin, alla tragedia di Ustica, e altre ancora, che il libro di Flamigni evoca con la forza di chi cita gli avvenimenti e li confronta con le reticenze,le lacune delle indagini, gli "omissis", i depistaggi, i grandi interregativi che gravano sulla vita democratica del nostro paese. In una nota finale del libro - nella quale l'autore contesta la tesi, cossighiana, che trasforma la strategia della tensione e il terrorismo in "guerra civile" (ribadendo, viceversa che, le stragi, i tentativi golpisti, gli assassini politici, avevano l'obiettivo di contrastare la Sinistra e, in particolare, l'ascesa elettorale e l'accesso al governo da parte del PCI) - sono ricordate le dieci stragi che hanno insanguinato il paese: 12 dicembre 1969, piazza fontana a Milano, 16 morti e 84 feriti; 22 luglio 1970, treno Freccia del Sud, Gioia Tauro (Reggio Calabria), 6 morti e 72 feriti; 31 maggio 1972, Peteano (Gorizia), 3 morti e 1 ferito; 17 maggio 1973, Questura di Milano, 4 morti e 46 feriti; 28 maggio 1974, piazza della Loggia, Brescia, 8 morti e 103 feriti; 4 agosto 1974, treno Italicus, 12 morti e 44 feriti; 16 marzo e 9 maggio 1978, Roma, strage di via Fani e uccisione di Aldo Moro, 6 morti; 27 giugno 1980, Ustica, 81 morti; 2 agosto 1980, stazione di Bologna, 85 morti e 200 feriti; 23 dicembre 1984, treno 904, S.Benedetto Val di Sambro, l5 morti e 267 feriti. Si tratta di avvenimenti più che noti. Tuttavia, pubblicati come una statistica demografica, danno l'idea, drammaticamente inquietante, del fatto che - come scrive Sergio Flamigni"- si è sparato da una parte sola, e sempre contro la democrazia".

 
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