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- N. 172 - 13 settembre 2001 Grave lutto per la Filef la morte di Filippo Di Benedetto ROMA - La notizia della scomparsa del compagno Filippo Di Benedetto, avvenuta a Buenos Aires, non si può dire inattesa per chi ne conosceva le sofferenze fisiche degli ultimi anni e per chi, come me, lo aveva visto l’ultima volta, a Roma, durante i lavori della Conferenza degli italiani nel mondo. Alla quale non aveva voluto rinunciare, pur non potendone essere un protagonista, come per tutta la vita era stato. Questo gli dava qualche disagio, lo si capiva vedendo quel corpo, ossuto e lungo, muoversi con difficoltà, lo si leggeva su quel volto scarno, tutto pelle e ossa, nonostante l’ampio sorriso col quale sapeva accogliere ogni interlocutore, anche se sembrava che tirasse il fiato coi denti. Dire che Filippo era uomo molto umile è forse la cosa che più gli avrebbe fatto piacere, insieme al fatto che egli sentiva una istintiva repulsione per ogni ingiustizia. In quanto nella sua vita, questo modesto artigiano emigrato, nato povero in Calabria e morto povero a Buenos Aires dopo mezzo secolo di emigrazione, aveva saputo diventare un dirigente degli emigrati, grazie al Partito comunista italiano al quale apparteneva, e a Giuliano Pajetta che, negli anni difficili delle repressioni in Argentina aveva intrattenuto con lui permanenti rapporti, affinché non andassero dispersi i fili della piccola "intelaiatura" costruita dai comunisti italiani, per lottare contro la dittatura e recare l’aiuto possibile ai connazionali minacciati dal regime dei Lopez Riga, della P2 e dei militari, prima e dopo il colpo di Stato. Chi lo ha conosciuto, sa che uomini del suo stampo non ne nascono molti. Io, ad esempio, non posso non dire che in un mondo quale quello dell’emigrazione, in cui c’è sempre bisogno di tutto, e quasi tutti fanno valere le ragioni delle proprie difficoltà, non ho mai sentito Filippo chiedere qualcosa, ad eccezione delle tessere del partito, necessarie per l’iscrizione dei compagni alla nostra organizzazione politica. Ricordo due momenti diversi dei nostri frequenti incontri nella città di Buenos Aires. Uno, il giorno triste delle incomprensioni, più che dello scontro, con i compagni del Partito comunista argentino, i quali non comprendevano la ragione per cui volevamo organizzare il Pci nel loro paese. Per loro gli emigrati italiani avrebbero dovuto iscriversi al loro partito. Noi eravamo di diverso avviso e Filippo era molto amareggiato per non essere riuscito a convincerli. Tanto più che i compagni del partito argentino rifiutarono di partecipare alla inaugurazione della nostra sede il giorno in cui riuscimmo ad aprirla. L’altro momento, più lieto, appunto, riguarda la sua soddisfazione il giorno in cui, nonostante tutte le difficoltà, grazie al suo impegno, insieme ad alcuni altri compagne e compagni emigrati, inaugurammo la sede della Federazione del Pci di Buenos Aires, in via Rivadavia, dove aveva affittato due stanze presso lo studio legale di un vecchio avvocato argentino. Oggi che è giunta la notizia della sua scomparsa avvenuta in quella terra lontana, è giusto dire ai suoi familiari, e ricordare a tutti, che si deve essere orgogliosi di Filippo Di Benedetto, un comunista, rispettato per la dignità con cui ha affrontato tutte le avversità della vita, per le cose grandi, importanti, che ha saputo compiere, i pericoli che, mettendo a repentaglio la propria vita, ha affrontato per salvare altri italiani. Non è retorico dire che è stato un eroe, e c’è da stupirsi che sia riuscito a scampare ai governi e alla dittatura, cause di tanti lutti del popolo argentino, e anche delle famiglie dei nostri emigrati. Non a caso Sandro Pertini, nella sua grande sensibilità popolare e democratica, fece conferire a Filippo Di Benedetto una onorificenza che significasse la riconoscenza della nostra Repubblica. Chissà se la sua terra d’origine, la Calabria, che lo ha avuto "consultore", vorrà dedicare un ricordo a questo suo figlio che le ha fatto onore nel mondo, anche se non è diventato uno dei "notabili" vincenti all’estero. Filippo Di Benedetto la sua nobiltà l’ha dimostrata, vivendo l’umile vita dell’emigrante, rimanendo quello che è sempre stato: povero e onesto. La Filef e l’Inca, che sono state le "sue" organizzazioni di riferimento in Italia, potrebbero prendere l’iniziativa di sollecitare in tal senso la Regione Calabria. Anche perché la vita, l’opera di questo umile, grande uomo, rappresenta un patrimonio che non deve andare disperso, soprattutto per il bene delle nuove generazioni. (Gianni Giadresco-Emigrazione Filef/Inform) |
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