“I
FIGLI DEI DESAPARECIDOS"
di Gianni Giadresco
Chi
aveva pensato che nella vicenda dei “desaparecidos” in Argentina
si fosse toccato il fondo dell’infamia, si sbagliava. Da qualche
settimana è nelle librerie un libro che ci fa scendere un altro
gradino nel baratro (Italo Moretti, “I figli di Plaza de Mayo”,
Sperling & Kupfer editori, pagg. 146, euro 13,50), proponendo una
vicenda di cui, prima d’ora, si aveva una conoscenza alquanto indefinita:
la sorte dei figli degli scomparsi, iscritti all’anagrafe come figli
dei carnefici dei loro genitori. Un libro efficace nello stile e sensibile
nei contenuti, che poteva essere scritto solamente da un grande cronista
come Italo Moretti. Pagine che si vorrebbe evocassero mostri inesistenti,
o comunque confinati nei recessi più oscuri e lontani della storia
umana. Invece sono cronaca contemporanea, vita vissuta, da protagonisti
in carne ed ossa, tra il 1976 e il 1982 in Argentina, il paese più
europeo del continente latino americano: che è come dire il cortile
di casa degli Stati Uniti, la più grande democrazia del mondo.
“I figli di Plaza de Mayo” è stato presentato a Roma
– davanti a un foltissimo pubblico nella sede dell’Associazione
Civita – nel corso di una iniziativa cui hanno preso parte, oltre
l’autore, il giornalista Antonio Ghirelli (autodefinitosi “direttore
socialista lottizzato al Tgl”), il giudice Francesco Caporale (che
ha rappresentato la pubblica accusa nel processo conclusosi con la condanna
dei generali argentini responsabili dell’uccisione e della sparizione
di alcuni cittadini italiani), e il noto psicanalista Luigi Cancrini.
L’opportuna dedica dell’autore – “al coraggio
delle donne” – è un atto di gratitudine non tanto alla
differenza di genere quanto alla straordinaria tenacia con cui le abuelas
argentinas con nietos desaparecidos, nonne argentine di nipoti scomparsi,
cercano, dal lontano 1977, di riannodare i fili delle loro vite familiari
spezzate dalla feroce repressione: indifferenti alle irrisioni, incuranti
delle minacce del regime, sprezzanti dei timori e delle viltà di
molta parte della società civile e dei ripetuti inviti della Chiesa
alla rassegnazione. Protagonisti inconsapevoli di questo tragico destino,
circa cinquecento bambini, che vennero considerati “bottino di guerra”
nella più sporca delle guerre: quella attuata in Argentina (ma
era avvenuto in precedenza anche in Cile), allo scopo di sterminare una
generazione di giovani – un genocidio ideologico, scrive Moretti
– le cui aspirazioni all’eguaglianza e alla giustizia erano
“pericolosamente sovversive” per l’oligarchia al potere
a Buenos Aires e gli interessi degli Stati Uniti d’America nel continente
latino americano. E’ anche vero, come è stato ricordato dell’autore,
che l’Urss, comprava il grano dal governo di Buenos Aires e all’Onu
votava a favore dell’Argentina; che vi furono sottovalutazioni in
Europa, anche nella sinistra (non nel Pci, come testimonia l’impegno
di Berlinguer, e non in Sandro Pertini, il partigiano Presidente, di cui
Ghirelli è stato il portavoce). Ma è innegabile il coinvolgimento
diretto degli Usa (anche del governo italiano e della maggior parte delle
gerarchie cattoliche), tanto da far dire a Ghirelli che gli americani
hanno consumato in Sud America il loro delitto peggiore calpestando, con
la complicità nella repressione, i principi democratici su cui
gli Stati Uniti si reggono. Del resto, alla pagina 5 del libro di Italo
Moretti, si legge che il Segretario di Stato americano, Henry Kissinger,
anziché adoperarsi, come avrebbe potuto e dovuto, per salvare le
speranze della democrazia, suggeriva al ministro degli Esteri di Buenos
Aires, contrammiraglio César Guzzetti, di non perdere tempo: “Se
dovete uccidere, fatelo in fretta”. Suggerimento quanto mai superfluo
per i generali felloni di Buenos Aires; i quali, come spesso accade nella
storia dei fascismi, fecero la parte degli allievi che superano il maestro.
Tant’è che in Argentina, scrive Moretti, “si muore
due volte, da vivi e da morti”. E lo stesso generale Videla, capo
della Giunta Militare, non ha vergogna ad ammettere che “l’unica
soluzione era farli sparire” (…) “mica potevamo processarli
e fucilarli, e neppure darli ufficialmente per morti” (…)
“figuriamoci! Per ogni persona dichiarata morta ci avrebbero chiesto:
chi l’ha ucciso? Dov’è successo?”.
I cinquecento bambini, figli dei desaparecidos, furono “requisiti”
e dichiarati “bottino di guerra” da parte della Giunta Militare
che si era sostituita, nel 1976, al peronismo morente, complici la destra
peronista, la famigerata P2 di Licio Gelli e la “Triple A”
– Alleanza Anticomunista Argentina – strumento dei più
atroci delitti. Lo scopo perseguito era quello di seminare il terrore
e la morte, sotto il pretesto di sedare una minaccia terroristica che
– come ha fatto notare il giudice Caporale – aveva dimensioni
ben altrimenti controllabili: non andava oltre le 3000 unità del
cosiddetto Esercito Rivoluzionario del Popolo e dei Montoneros. Naturalmente
i golpisti proclamavano diritti e principi che, viceversa, contraddicevano
in modo sistematicamente brutale, come soltanto i nazisti in Germania
erano riusciti a fare. Si pensi che Jorge Rafael Videla, nel suo proclama
alla nazione argentina, prometteva “il rispetto dei diritti umani”,
“l’esaltazione della libertà”, “l’imposizione
della giustizia”. Dopo 7 anni, il bilancio risulterà a dir
poco orripilante, l’Argentina non sarà più se stessa:
ai 30 mila desaparecidos si aggiungono, una inimmaginabile corruzione
e la dissipazione delle risorse nazionali, una politica economica dipendente
dagli Usa che ha portato alla rovina quello che era uno dei paesi più
ricchi del mondo. Ultimo atto del dramma: la folle avventura della guerra
alle Falkland-Malvine, con la quale i militari golpisti speravano di nascondere
le loro malefatte sotto la logora bandiera dell’avventurismo nazionalistico.
Alle molte facce assunte dal fascismo argentino – Peron e Evita,
la P2, Lopez Riga, la dittatura militare, la repressione, la guerra –nessuno
immaginava di dovere aggiungere il capitolo scabroso e truce dei bambini
rapiti. Alcuni erano stati sequestrati piccolissimi assieme ai genitori;
altri erano nati nelle prigioni clandestine dove le madri venivano tenute,
“sepolte vive”, fino al parto. Secondo la mente distorta e
criminale dei generali al potere – i quali non provavano vergogna
a parlare di convinzione cristiana e dignità umana – i figli
dei “sovversivi”, avrebbero dovuto poter crescere in un ambiente
“sano”, per cui i genitori dovevano scomparire, drogati e
gettati vivi dagli aerei in pasto ai pescecani nell'oceano, o in qualche
altro diabolico modo, magari simulando l’enfrentamiento, lo scontro
a fuoco, che non c’è mai stato, e la sepoltura anonima in
qualche fossa comune. I neonati, scrive Moretti, “sono merce appetita
da militari intenzionati ad adottarli o a iscriverli quali figli propri
negli uffici di stato civile”. Gli aspiranti ladri di bambini si
mettono in lista d’attesa: “Vede che bella ragazza, suggerisce
lo sgherro al superiore indicandogli una delle imminenti madri”.
“D’accordo”, risponde l’altro, “avvertimi
quando avrà sgravato, suo figlio lo prendo io, intanto dalle le
vitamine e falla camminare” (pag. 2).
Chi legge questo libro, troverà sconvolgente anche l’odissea
delle abuelas che, in pieno regime militare, decidono di rendere pubblica
la loro storia. In principio sono solamente dodici. Pubblicano annunci
a pagamento sui giornali. Si rivolgono alla Magistratura. Tutto sembra
vano. Le risposte più compiacenti dicono che non si potrà
mai dimostrare la relazione di “nonnità” del bambino
anche se lo ritrovassero; le più avvertite paventano il potere
e la vendetta dei militari; quelle più pietose si interrogano se
sia giusto “traumatizzare” le creature che, ignare della sorte
toccata ai loro veri genitori, vivono da anni nella famiglia apriopriadora.
(A questo proposito il prof. Cancrini asserisce che la verità fa
meno male al bambino di quanto ne faccia il silenzio: per cui nessun psicanalista
serio suggerirebbe di tacere).
Il crollo del regime militare e il ritorno della democrazia, seppur fragile,
aprirono nuove possibilità. Tanto più che la scienza genetica
diede una mano con la scoperta che dall’esame del Dna è possibile
risalire alla relazione di “nonnità”. A quel punto
tutte le nonne di Plaza de Mayo, depositarono i campioni del loro sangue
nella “banca” di Buenos Aires, affinchè siano conservati
“a futura memoria”. “La nostra è una catena che
non si spessa”, dice Estela Carlotto, Presidente dell’associazione
delle Abuelas. “Quando i nipoti avranno cinquat’anni e noi
non ci saremo più, il nostro sangue potrà servire ad accertare
la realtà della situazione” (pag. 140).
Secondo quello che riferisce Moretti, fino ad oggi sono un centinaio i
ragazzi che hanno abbandonato la famiglia in cui erano cresciuti nell’inganno.
Gli altri, i più, vivono ancora sotto mentite spoglie, ignari,
dubbiosi o incapaci di mettere in discussione la loro identità,
in qualche caso consapevoli, ma solidali con i secondi genitori.
Anche per questo non si può non consentire con ciò che si
legge nell’introduzione: “Questo libro non è la riproposta
di una storia del passato, ma il racconto di una vicenda umana senza precedenti
che continua nel presente ed è proiettata nel futuro”.
La Rinascita - n.14
del 12.4.2002 |