I
fratelli Cervi, 60 anni fa
Nell’alba
nebbiosa e tragica del 28 dicembre 1943, al poligono di tiro di Reggio
Emilia, vennero spente le vite di otto ragazzi di campagna, sette fratelli
e un giovane meridionale, tale Quarto Cimurri, rifugiatosi presso di loro
dopo l’armistizio dell’8 settembre. Tutti erano in attesa,
si diceva, di un regolare processo. Anche il padre dei sette fratelli,
il vecchio Alcide Cervi, era stato arrestato con loro, ma quella mattina
i fascisti non lo vollero.
Abbiamo scritto altre volte del sacrificio dei fratelli Cervi e del mito
di una famiglia contadina emiliana che ha rinnovato, durante la guerra
di liberazione nazionale, l’epopea popolare dei martiri di Belfiore,
della spedizione di Sapri, dei caduti al Vallone di Rovito, durante quello
che è scritto nella storia col titolo di primo Risorgimento. Ci
siamo domandati se, in occasione del 60 anniversario dell’avvenimento
dovevamo limitarci a un ricordo di circostanza, come spesso fanno coloro
che portano una corona alla lapide dei caduti in guerra solamente per
assolvere a un rito, senza interrogarsi sulla ragione della loro sorte.
In fondo non pochi pensano che, oggi, sessant’anni dopo, forse sarebbe
il caso, di trovare “una memoria condivisa”. Che cosa questo
significhi ce lo dovrebbero spiegare: la memoria, condivisa o contestata,
è, al pari della storia, la verità dei fatti; non è
la storia scritta dai vincitori.
E i fatti ci dicono, ad esempio, che non ci fu alcun processo. I fascisti
repubblichini, quel 28 dicembre 1943, cioè poche settimane dopo
la costituzione della Repubblica sociale, trassero dal sonno nella cella
delle carceri di San Tommaso, in cui li avevano rinchiuso da un mese,
i fratelli Cervi e il giovane Cimurri, per condurli davanti al plotone
di esecuzione.
Non ci fu alcun processo. La sentenza di morte la emisero iil federale
fascista e prefetto repubblichino di Reggio Emilia, “per rappresaglia”
a seguito dell’uccisione del segretario comunale di un paesino della
bassa.
Alle quattro del mattino del 28 dicembre, cioè prima ancora che
il plotone di esecuzione sparasse le sue scariche mortali sugli Otto ostaggi,
il giornale repubblichino di Reggio Emilia - “Solco fascista”
riceveva dalla Prefettura un comunicato (che verrà pubblicato lo
stesso giorno) nel quale si leggeva: “Il segretario comunale di
Bagnolo in Piano vigliaccamente ucciso - Il tribunale straordinario condanna
a morte otto individui -
La sentenza è stata eseguita”.
Sarà pure vero che quel personaggio dei Bagnolo in Piano era stato
ucciso “vigliaccamente”, ma nessuno poteva fame carico ai
sette Cervi e al povero Cimurri, non fosse altro per il fatto che si trovavano
rinchiusi nelle carceri.
Né, quel giorno, c’entravano i tedeschi. Non è forse
vero che la nuova tesi dei repubblichini (o meglio post-repubblichini)
è che la Repubblica socialeè sorta per evitare agli italiani
la dura e spietata sorte che i tedeschi riservavano ai traditori, considerando
che l’Italia li aveva traditi firmando l’armistizio l’8
settembre? Ebbene, quel giorno, la responsabilità fu tutta intera
dei repubblichini di Salò. I fascisti italiani erano soli, anche
se dimostrarono di avere bene imparato la lezione dei camerati germanici,
i quali avevano stabilito una regola “banditi italiani” per
ogni tedesco. Loro, i fascisti di Reggio Emilia fecero lo sconto si accontentarono
di otto ostaggi, i sette fratelli, arrestati per il loro antifascismo
e per avere dato ospitalità agli ex prigionieri di guerra alleati,
e il “rinnegato” che, in verità non aveva ancora violato
i “bandi” della Repubblica sociale, per la semplice ragione
che quei famigerati bandi non erano ancora stati emessi.
Otto italiani, definiti banditi, pur sapendoli assolutamente estranei
alla uccisione del segretario repubblichino di Bagnolo: una spietata,
sanguinosa vendetta, contro una famiglia di contadini che non si era mai
piegata all’arroganza e al sopruso, ed aveva aperto le porte agli
ex prigionieri alleati, talchè, sarà scritto più
tardi, la loro casa, era diventata “una succursale dell’Onu”.
Questi sono i fatti, e questa è la storia, che non è stata
scritta “dopo”, dai vincitori. Non c’è, né
da condividerla nè da contestarla, si può solamente celebrarla
e apprenderne la lezione. LA quale ci dice che i Cervi sono entrati nella
leggenda perché non esiste nella nostra storia, e forse non c’è
nella storia di nessun popolo, il sacrificio di sette fratelli caduti
nello stesso istante, per la stessa causa.
Che, il capo del partito post-fascista italiano Gianfranco Fini, riconosca
che Salò è stata una pagina indegna ha il suo significato,
come lo hanno le indegne rievocazioni che i suoi camerati vanno facendo,
anche in polemica con lui, della stessa Repubblica di Salò.
Che quello di Fini sia un esempio di trasformismo, invece di una convinta
condanna di un passato vergognoso, non ha molta importanza. Ciò
che conta è che, 60 anni dopo, lui stesso deve riconoscere quel
che i fascisti hanno sempre negato e negano: che vince la storia dei Cervi,
non quella dei repubblichini; vince la Repubblica democratica, nata dalla
Resistenza, grazie all’unità antifascista dei Comitati di
liberazione nazionale, nei quali i comunisti hanno avuto un ruolo che
nessuno potrà mai cancellare, perché fu decisivo per abbattere
la dittatura, conquistare la libertà, in una Europa in cui Churchill
e Roosevelt si erano alleati con Stalin, contro l’orrore del nazifascismo.
E, per quel che riguarda noi italiani, nacque una democrazia che, non
a caso fu definita “di tipo nuovo”, proprio per l’apporto
che vi avevano dato quanti si sono riconosciuti nella grande forza liberatrice
espressa dai comunisti italiani.
La storia è fatta di scelte: hic Rodus, hic salta! Per questa ragione
come ci ricordò un giorno, Piero Calamandrei - la storia non cerca“condivisioni”,
in quanto non può rinunciare a distinguere tra la barbarie e la
civiltà, tra la libertà e l’oppressione, il privilegio
e la giustizia, l’umanità e la ferocia, la pace e la guerra:
da una parte i Cervi, da quell’altra i loro assassini.
(Gianni Giadresco,
la Rinascita della sinistra, 30 dicembre 2003) |