Togliatti, Papa Giovanni XXIII e le “aperture a sinistra” Si era allora, nella primavera 1963, in una fase delicatissima della situazione italiana. Le resistenze conservatrici, arroccate a quel che resta del vecchio schieramento centrista, facevano non solamente ostacolo alla soluzione di centro-sinistra, ma mettevano in serio pericolo la vita democratica del Paese. Come si era verificato, con Tambroni nel luglio 1960, e come accadrà pochi mesi più tardi con il Sifar del generale De Lorenzo. In quella situazione ebbe un ruolo decisivo nei confronti dei cattolici il papato di Giovanni XXIII, dapprima con molta prudenza, poi decisamente innovatore nel riconsiderare l’atteggiamento che aveva tenuto la Chiesa nei confronti della società e della politica italiane. Nel “nuovo corso” determinato da Giovanni XXIII diventava sempre più evidente la simpatia con cui il Vaticano guardava la cosiddetta “apertura a sinistra”, dalla quale - sia detto per inciso - restavano esclusi, discriminati, i comunisti e la sinistra socialista, la quale finirà con l’abbandonare il Psi e dare vita al Psiup. Per quanto si muovesse con molta prudenza, il pontefice succeduto a Pio XII, induceva la Chiesa ad abbandonare la prassi, seguita fin dal 1946, di intervenire direttamente nella vita politica della Repubblica. Così i Comitati civici cessarono di esistere, l’Azione Cattolica fu relegata a compiti spirituali e sociali e il suo presidente, Luigi Gedda, fautore delle crociate, lascerà l’incarico. Negli ultimi due anni del suo pontificato, Giovanni XXIII cercò di instradare la Chiesa in una nuova direzione, imponendo la grande svolta detta del “dialogo” e del Concilio Vaticano II, che si terrà a quasi un secolo di distanza dal precedente del 1870. Quanto ai contenuti, papa Giovanni sarà esplicito nelle sue encicliche - l’ultima e più famosa, la Pacem in Terris, era un invito alla conciliazione internazionale, basato sulla neutralità della Chiesa e sul rifiuto di accettare le barriere della guerra fredda, sulla distinzione tra l’errore e l’errante. Lo spirito del messaggio era l’esatto contrario degli appelli lanciati dal suo predecessore, tutto proteso alla “guerra santa” contro l’Urss e i paesi dell’Est comunista in difesa dell’Occidente cristiano. Ed è così che si aprì una nuova fase nelle relazioni tra Chiesa e Stato in Italia, in cui all’integralismo di Pio XII si sostituì una diversa concezione della Chiesa, piuttosto legata al suo ruolo pastorale e spirituale che non alla sua vocazione politica anticomunista. Ed è in quella fase che si avrà una verifica importante della politica e dell’attenzione di comunisti nei confronti dei cattolici, proprio in relazione alla distinzione che Giovanni XXIII aveva fatto tra l’errore, che la Chiesa condannava, e l’errante col quale la Chiesa non poteva rinunciare a dialogare. Spinti da un istinto strumentale, alla sezione centrale Stampa-propaganda della direzione del Pci, pensammo di sfruttare l’enciclica papale ai fini elettorali. Ci riunimmo al Sesto piano del palazzo di via delle Botteghe Oscure, nell’ufficio di Luciano Romagnoli, a quel tempo responsabile della sezione. Non c’era molto da discutere. Il pontefice con la sua enciclica ci aveva dettato il più semplice ed efficace dei manifesti: il grafico trovò una bella immagine di Papa Giovanni con sovrimpresse le sue parole. In basso: “Vota comunista!”. Prendemmo i necessari accordi con la tipografia (se non sbaglio la “Rotocolor” di Roma, sulla via Tiburtina) e preannunciammo alle Federazioni che, tempo 48 ore, avrebbero ricevuto il manifesto. Seguivamo la prassi normale, come sempre: nessuno, oltre il responsabile della sezione Stampa-propaganda, poteva interferire nella stampa. Tuttavia in quel caso, eravamo così soddisfatti del nostro lavoro che pensammo di aggiungere un… eccesso di zelo. Quando Luciano Romagnoli suggerì di scendere al 2° piano da Togliatti per mostrargli il bozzetto, lo seguimmo, sicuri di prenderci ognuno la propria parte del merito, che non sarebbe mancato nel giudizio di Togliatti. Non lo avessimo mai fatto. Togliatti, quando alzò lo sguardo verso di noi, dopo avere osservato il bozzetto posato sulla sua scrivania, deve averci paragonato agli erranti da non confondere con l’errore, poi disse, con un filo di voce: “Compagni, è un errore, questo manifesto noi comunisti non lo possiamo fare. Questa è una questione talmente delicata e seria che riguarderà l’avvenire della Chiesa e del socialismo. Noi non possiamo bruciarla per qualche voto in più in una campagna elettorale, dando l’impressione di strumentalizzare le coscienze dei credenti”. Risalimmo al 6° piano e comunicammo alle Federazioni che non se ne faceva più niente. Ed è stato bene così, per la credibilità della nostra politica e anche agli effetti del risultato se è vero che il 28 aprile, l’esito del voto, vedrà lo scudo crociato arretrare dal 42 al 38%, ed il Pci salire dal 22 al 25% (26 seggi in più). Poi continuerà la campagna bugiarda contro lo strumentalismo e la doppiezza dei comunisti, ma via via saranno sempre meno coloro che vi presteranno fede. di Gianni Giadresco |
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